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Archive for agosto 2014

veritable benedectine - fernanda veron

Io non so perdere ma ammetto la sconfitta. Isso una tremula bandiera bianca e mi ritiro in un angolo. Ma non so perdere. Riesco a covare rancore per anni senza trovare un minimo di pace, è questione di carattere, c’è poco da fare. Passo dai periodi di pace assoluta a quelli di cazzimma più totale. Abbasso le saracinesche e metto le ganasce ai ricordi, li imprigiono, e loro lì, felici di convivere in un perimetro di memoria così ristretto, evolvono, si trasformano, e diventano giganti pronti ad abbellire quanto di più brutto hanno depositato. I ricordi sono come le nuvole di polvere della pubblicità: li spingi fuori dalla porta e ti suonano il campanello travestiti da rappresentanti della Folletto, s’infilano in casa, nella tua bella asettica casa e si accomodano sul divano in attesa del caffè. In questo periodo il mio divano è molto frequentato. Saranno i cuscini nuovi o la mia rinomata accoglienza meridionale, ma non c’è verso di tirarli fuori, neppure se ti compri la scopa elettrica di ultima generazione, e così mi arrendo e accetto la sconfitta, mi siedo lì nella poltrona e mentre rigiro lo zucchero nel caffè, li guardo organizzarsi.  Si dividono in gruppi da quattro, all’inizio ho pensato che fossero suddivisi in periodi anagrafici decennali, dai venti ai cinquanta, poi ho capito che erano organizzati per potenza emotiva. C’era un tipo che manteneva le fila, disponeva i ricordi e li raggruppava nell’ordine stabilito, era basso e tarchiato e non ricordo affatto di averlo mai incrociato nel mio polveroso accumulo, eppure sembrava uno che sapeva il fatto suo, tanto che a un certo punto ha fatto alzare il ricordo del primo bacio, con fare brusco, per essersi intrufolato furtivo nel settore della separazione. L’ha lasciato lì, in piedi, per un sacco di tempo, abbastanza da mettermi in difficoltà perché non riuscivo a trovargli una collocazione precisa. Perché non lo ricordavo. Solo per questo.

Una volta ottenuto il beneplacito del direttore dei lavori, siamo stati tutto il tempo a guardarci con aria interrogativa, non sapendo bene come comportarci: a me sembrava un inutile e grottesco bagno di folla, a loro una sosta forzata nel regno dell’appartenenza. E regnava l’imbarazzo. Quell’imbarazzo mai sconfitto che si frappone tra esseri che si sono amati o perlomeno che hanno condiviso centimetri di pelle e di cuore in un periodo della loro vita: ne incontri uno al bar e non sai mai se lo puoi toccare, baciare, abbracciare e forse non te ne frega neanche niente di toccarlo, baciarlo e abbracciarlo ché la tua vita adesso è un’altra e non ti ricordi neppure in che settore devi collocarlo, eppure niente, ti acchiappa quella sorta di sospensione che ti ritrovi subito proiettata indietro e cominci a parlare in codice come se il tempo non fosse mai trascorso. Ecco, pensate a una situazione del genere moltiplicata all’infinito nel salotto di casa vostra. Decisamente tranchant.

Con i gruppi 1 e 2, di scarsa/media potenza emotiva, me la sono cavata abbastanza bene, in fondo erano solo recriminazioni di carattere accusatorio e decisamente infantili: appuntamenti mancati, tradimenti, storie e amicizie troncate senza un apparente motivo valido, piagnistei adolescenziali insomma, che a questa età fanno solo sorridere. Abbiamo chiacchierato amabilmente rettificando il tiro laddove in passato si era arrivati alla tragedia greca e alla fine ci siamo salutati con tenerezza: alcuni sono rimasti perché si sentivano di appartenere alle altre categorie, altri sono rientrati nei cassetti e altri ancora hanno preso l’uscio di casa per non farvi più ritorno.

Per il gruppo più azzeccoso, quello che non lo togli via neppure con la candeggina, la lotta è stata ìmpari e cruenta. I due gruppi coalizzati dalla convinzione di esseri i migliori, si sono scagliati con una ferocia inaudita contro quella che sembrava essere l’unica strategia possibile per evitare spargimenti di sangue: ridimensionarli; cercando di sorvolare sui singoli dettagli, per inglobare i ricordi in una prospettiva sistematica di scambio comunicativo a basso livello di personalizzazioni, provando in pratica a ridurre l’intensità ed evitare così ossessioni e paranoie persecutorie. Ma che ci pensi a fare! Non c’è niente di peggio che levigare i ricordi, ti convinci di averli tirati a lucido e poi, quando distrattamente ci passi una mano sopra, ne esci insanguinata. Loro stanno lì, radicati nel tuo corpo, che se li spingi via dal cervello, riemergono sul cuore, più affilati che prima, più taglienti che mai. Sono loro, quelli della fascia alta, che determinano i ricordi successivi, che riaccendono le lampadine della memoria e ti fanno fuggire via: “Ah no, non se ne parla nemmeno, questa sensazione la ricordo… so già come va a finire, devo scappare a gambe levate!”. E così a un certo punto ti accorgi che la tua vita si è trasformata in una fuga perpetua: scappi da tutto senza una ragione precisa, cominci a odiare gli imprevisti, diventi diffidente e ti accoccoli sul cuscino della memoria giustificando così ogni negazione. E ti distacchi dal piacere. E un battito di cuore diventa un’extrasistole da curare al più presto, diventi medico di te stesso convincendoti che sai bene come affrontare questa malattia che è la più tenace, la più infida, quella che ti arriva alle spalle e ti si piazza davanti con un mezzo sorriso di sfida. La mia malattia è l’accettazione dell’amore. Ha un nome, ma non una forma. Ha una tristezza e un’euforia, un alto e un basso, una fuga e un ritorno. E un ricordo. É uno scarabocchio sulla mia spavalderia, un buco nero che non emerge al sole, un coraggio che si fa timore. L’accettazione dell’amore è l’accettazione di se stessi: la capacità di accettare la sconfitta sapendo bene che le ferite non saranno mai mortali, che potrai sopravvivere e che farsi del male a volte fa bene, che la tua pelle è fragile e il tuo cuore spugnoso e che può piangere in eterno pur mantenendosi in vita. Ti ricorda che dovrai aggiungere un posto sul divano, perché l’amore spesso non ti vuole, però ti cerca sempre.

L’amore è solo per i sani

per i diversi

per quegli esseri risolti

che si esaltano

nelle pieghe dell’affetto.

L’amore non è per quelli

come noi

che stanno tutto il tempo

a stirare un tessuto ormai logoro

che serve a ingannare

a intrappolare.

Siamo impostori.

Siamo disperati.

Siamo la mano di vernice

a colorare la macchia lineare

deposta dentro il cuore:

quella piccola

insignificante cicatrice

che riemerge lucida

e gonfia

ogni volta che ti guardo.

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Per noi gente di mare, la spiaggia è il rifugio delle riconciliazioni, stiamo tutto l’anno a scontrarci nei cappucci dei Moncler facendo finta di non riconoscerci, e poi non si sa per quale assurda magia, da nudi ci riconosciamo al volo. Sarà l’esposizione epidermica, l’assenza di armature, sarà che ci solleviamo a vicenda dall’imbarazzo di girare con due pezzi di stoffa attaccati sulla pelle, ma come per una misteriosa alchimia, diventiamo stranamente socievoli e disposti a perdonare la stupidità in cambio di un po’ di cellulite ben distribuita. Se poi raggruppi alcune amiche, strette sotto una palma a dieci metri dal mare, nel tentativo di ripararsi dalla pioggia e con le dita dei piedi affondate nella sabbia, ecco che quello diventa il momento del massimo delirio sul pettegolezzo estivo:

– Oh, ma quella non è Marina? –

– Ma chi, quella col costume rosso? –

– Sì, quella che sta passando adesso. Sta proprio fuori, cammina sotto la pioggia come un’adolescente, e che si crede che ha vent’anni, stasera sarà paralizzata dai reumatismi! –

– Madonna, non esagerare, sei proprio malefica. Oh, a proposito, ma le avete viste le foto di Marina su FB, quelle in costume, certo ci vuole un bel coraggio, brava però, non si crea nessun problema… con quel girovita che si ritrova… –

– Ma chi è, quella che ha mollato la famiglia per uno di dieci anni più giovane? Altro che coraggio, quella s’è venduta il cervello al miglior offerente. Dammi retta! –

– Quale cervello! – replico stizzita.

– Dai ragà, tutta invidia, intanto quella se la gode. Certo con tutta quella cellulite… lui che fa di mestiere: il panettiere!! –

– Ahahah… cara vieni che stasera t’ammasso… –

– Siete feroci. Non la crocifiggo io che a sedici anni mi ha rubato il ragazzino, la massacrate voi, che non vi ha fatto niente. Dai, siamo tutte coetanee, un po’ di pietà per chi ha paura di invecchiare… anche noi ne abbiamo… e lo sapete bene. Poi la bellezza è solo un’accettazione di sé, io ho lavorato una vita per superare alcuni aspetti del mio corpo che mi creavano disagio e adesso sono pronta a essere me stessa. Con tutti i miei difetti, anzi, soprattutto ai miei difetti. E vi dirò di più, quello che io vedo di me stessa, lo trasmetto agli altri: se io mi sento bella, gli altri mi vedono bella. – s’infervora la Franca, in una sorta di difesa a distanza.

– Stai dicendo che la bellezza è una percezione? –

– No, sto dicendo che la bellezza è interiorità. Evidentemente anche Marina si sente bella e libera da se stessa, finalmente. –

– Sì, ma io non mi gonfio come un canotto: io mi piaccio per quella che sono. – replico piccata.

– Ne sei sicura? – e Franca comincia a scattarmi qualche foto.

La lascio fare, tanto mi conosco, non ho sorprese, non dovrò scontrarmi con il lavoro fatto male di un chirurgo estetico di provincia. Il mio aspetto non ha sorprese, mi guardo tutti i giorni con occhio critico e posso confermare di possedere anche un certo senso estetico che mi affranca da tacchi a spillo e minigonne da vecchia ringalluzzita. Sono una donna. Una di quelle vere. Una al passo col suo tempo.

Alla fine, quando la pioggia diventa incessante, decido di tornare e nel tragitto di quattrocento metri che mi separa da casa, seguo l’onda dei bip-bip sul mio cellulare. Ogni tanto butto uno sguardo e, nonostante la cecità incipiente, vedo che Franca ha deciso, con solerzia maniacale, di inviarmi tutte le foto con tanto di didascalia che recita “Che bella che sei”. Mi guardo in quel rettangolo illuminato e intanto cammino, poi mi guardo di nuovo e cerco di specchiarmi nelle vetrine dei negozi che incontro, poi metto il cellulare in borsa e canticchio una canzone, poi lo prendo di nuovo e mi osservo ancora, stavolta direttamente rivolta alla vetrina con il cellulare in mano. Sembro una matta. Sono una matta. Ma, merda, di cazzo è quella sul telefono? Mi sembra di vedere una che non conosco e comincio a credere che il commento di Franca sia una presa per i fondelli. L’unica foto decente è quella con gli occhiali da mosca che coprono metà del viso, mentre l’altra metà è oscurata dal cucchiaino della Coppa Rica all’amarena che mi sto sbafando: a questo punto aprirei anche un capitolo sulla Coppa Rica all’amarena che resta, sempre e comunque, l’unico gelato degno di questo nome, ma non mi sembra il caso! Tant’è che comincio a incupirmi fino ad arrivare a casa in uno stato di profonda prostrazione: sono uscita stamattina che avevo cinquant’anni (percepita trentacinque) e rientro che ne ho cinquanta (percepita sessanta!). Ed è inutile stare là a menarsela con le frasi alla Anna Magnani “Le rughe non coprirle che ci ho messo una vita a farmele venire” che poi con questa storia guarda com’è andata a finire: che il tipo si è messo con una con la metà dei suoi anni e ci ha fatto pure tre figli e lei è rimasta tutto il tempo sull’isola di Vulcano ad aspettare un’eruzione che non è mai avvenuta.

E allora ne vogliamo parlare di questi uomini che potendo scegliere tra una donna coetanea e una più giovane, scelgono quella più giovane? Quella la cui faccia si tiene ancora e non crolla sul parquet come uno yogurt scaduto? Ma perché, se noi potessimo scegliere, ma scegliere veramente, senza stereotipi da mamma italiana tutta dedita alla famiglia e alla prole: ma Sant’Iddio, non daremmo indietro la testuggine per un bel camaleonte? E ti puoi mettere tutte le creme all’olio d’Argan della terra, te lo puoi estrarre pure da sola e immergerti nell’olio di Argan fino a scivolare come una saponetta, ma tranne che friggerti sulla faccia due calamari, non è che risolvi molto. Ho letto di donne famose che si spalmano sulla faccia creme alla bava di lumaca e al siero di vipera e che poi quando vanno al ristorante fanno pure le vegane! Comunque a parte questo mio delirio cosmetico provocato dallo choc di vedermi la faccia come un mandala ancora da colorare e di pessima qualità, quello che voglio dire e che li capisco. Li capisco questi uomini che preferiscono veder gironzolare per casa una bella coscia liscia e soda senza cellulite, una faccia uguale a quella lasciata sul cuscino la sera prima e non quella specie di carta oleata accartocciata, come quella che butti via in un pugno chiuso dopo aver divorato il salame ungherese in piedi davanti al frigorifero, perché anche se non riescono a farci più niente, se non guardarle, almeno godono della loro bellezza che mette allegria, come di un bel vaso di fiori colorati su una tovaglia bianca: sai bene che prima o poi ti dovrai comprare una pianta grassa perché non gliela fai più a cambiargli l’acqua, ma finché dura…

Siamo in un mondo capovolto dove gli uomini “in età” cercano le ragazzine e le donne “in età” i ragazzini, ma il vero punto di domanda è un altro: ma i ragazzini e le ragazzine, che minchia cercano?

Perdonate il pessimo post, avevo altro da dire, ma poi mi ha preso così!

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sciarpa

Vagare senza senso. Girare a vuoto. Come una girandola impazzita. Prendere fuoco per nulla. Ricomporsi con poco. Estrarre un misurino per misurare la normalità. Gettare il misurino per alterazioni non pervenute. Convincersi che il misurino è taroccato.

Prendere coraggio.

Ogni giorno che passa nel disincanto, mi convinco che il gioco si è fermato, che i dadi sono rimasti in un pugno chiuso, nell’atto di lanciarli; mi convinco che il piccolo grattacielo di fiches dondoli un po’ e scivoli sul nero. Hai sempre preferito il rosso, su questo non ho dubbi. Il rosso ha un suo bisogno, una propria necessità, il rosso ha un carattere: esiste per ferire, per infiammare gli occhi, per rendere inconfondibile un tratto futile di grigio. Sul rosso non puoi vagare, ti attrae come una stella cadente: è la scia luminosa dei colori che ti porti dentro e ogni volta, ogni stramaledetta volta, che indossi quel colore, il tuo mondo sta mutando. Perché il rosso ti cattura, ti seduce, e poi ti lascia, abbandonato a te stesso, alla ricerca di un colore che non ti basta mai.

La prima volta ti ho regalato una camicia rossa, di lino, un colore insolito per te, con un biglietto che diceva: “Ti regalo un colore” e con quello intendevo regalarti un modo di essere, cercavo di liberarti dai misurini per gettare all’aria tutto il grigio che non riuscivo a scalfire. Ero la tua migliore amica. Io avevo un altro e tu avevi me.

In un’altra ti ho regalato un pensiero: “… E trovo maniglie rosso fuoco su portoni che non aprono nulla”, e tu hai riso, adducendo invereconde affinità alla tua prestanza fisica, come se non ti conoscessi, come se non fossi la tua migliore amica. Ma a quel punto, tu avevi me ed io non avevo più altro. Ero già diversa in verità: ero già passaggio di fortuna. Perché le donne diventano passaggio di fortuna quando rappresentano l’unica risorsa pensante dell’uomo vagante, quando diventano una spiaggia per balene senza memoria: uomini spiaggiati da se stessi e senza alcuna capacità di rinvenimento, ecco, potrei dire di me come di un delfino (meglio della balena!) sorridente e in camicia rossa di lino. Una sorta di Garibaldina dell’amor perduto! Terribile solo a pensarci. Bleah! Rimuovi.

In un’altra ancora ero solo rancore. Rosso, come solo i rancori sanno essere. Ricolmi di rabbia, di pelle arrossata e chiazze che fuoriescono dalla pelle bianca. Ero solo furore. Un furore che terrorizza, un furore da cui cercavi inutilmente di sfuggire. Anch’io cercavo inutilmente di fuggire: è faticoso il furore, diventa col passar dei giorni una guerra aperta sul nulla, vorresti tornare indietro e farti una risata, ma quello è lì, come una pantera. Allora per colpa di quel furore incontrollato, decidemmo che il rosso era un colore di guerra, di rabbia, di frasi spezzate e mai ricomposte. In fondo basta poco se ci pensi, basta completare un pensiero a volte, per ritrovare un chiarore eloquente che non dia adito a mistificazioni.

Adesso siamo in un rosso porpora, cardinalizio, quel rosso che quando lo incroci pensi che non ti possa accadere mai niente di veramente terribile. Ci troviamo in quella “No Man’s Land” che tutti pensano di raggiungere nella fase di mezzo. Ma non è vero. Come per tutti i paesi cattolici, sappiamo bene che da quel rosso lì, non puoi aspettarti niente di buono. All’improvviso e inaspettatamente, qualcuno, delle due fazioni, non importa quale, si alza, imbraccia il colore e sventola una bandiera rosso fuoco. Che è di dolore. Che è di paura. Che è di rabbia.

E allora sì, che ti sentirai spento, perché a quel punto non sarà più importante chi dei due abbia issato la bandiera, la sconfitta sarà comune e sarà come una resa, stupida, inutile, incomprensibile. Sarà come un abbandono: di un colore, un pensiero, un’idea di perfezione. Sarà come non aver vissuto.

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La notte bianca cittadina, da non confondere assolutamente con la notte IN bianco (in tutti i sensi!), è una di quelle invenzioni estive degli ultimi tempi, esportata probabilmente dalla Capitale ma sviluppatasi in tutte le città italiane a giorni alterni, ma rigorosamente, almeno credo, nel mese di Agosto. Trattasi di una nottata di musica, danze, aperitivi on the road e negozi aperti fino alle due di notte e delimitata principalmente nel centro della città. Un delirio, praticamente.

Ieri sera con le mie amiche, invece di andare a schiantarci in uno dei soliti localacci che frequentiamo abitualmente, decidiamo di immergerci nella fantasmagorica passeggiata altamente alcolica che contraddistingue questo evento a dir poco grottesco. Dopo aver deciso con innumerevoli messaggi su WhatsApp, tanto che non ce la facevi neanche a farti la doccia per leggere e rispondere, se andare tutte in bici oppure in macchina (perché la bici è una rottura se poi l’alcol ti prende, sì, però vuoi mettere la macchina e dopo dove la parcheggi, ah vabbè con la Smart forse hai una speranza, però forse la bici è meglio, stiamo tutte a tre isolati dal centro e che diamine, sì, ok allora io prendo la bici, ok, allora anch’io. Bene allora tutte in bici… e poi siamo arrivate tutte in macchina), ci organizziamo per incontrarci nel centro di quello che in seguito si è rivelato uno “struscio” paesano: tacchi, tacchi, fortissimamente tacchi! Non ho mai visto in vita mia tante donne traballare su tacchi di 15 cm. Una pena infinita! A parte questo dettaglio che non ci riguarda da vicino, essendo noi ben lontane da quegli stereotipi da Stivaletto Malese, decidiamo che l’unica è andarci a posizionare in una birreria per sentire un concerto di ragazzi spagnoli (fighi oltremisura, ma questo è un dettaglio) che suonano dal vivo in mezzo alla strada. E qui succede l’imprevisto! E io odio gli imprevisti! Vedo il Chihuahua! “Chihuahua” è il soprannome che ho dato all’attuale donna del mio ex compagno (soprannome peraltro da lui condiviso) in un momento di totale lucidità letteraria, essendo la donna in questione, del genere secco e stizzoso, con muso a punta ma pronto ad aggredire: di quelle che non le lasceresti un fianco scoperto neanche su un’isola deserta. Il suddetto animale si aggirava con fare languidamente sostenuto aggrappato alla tavola del pub, con la birretta in mano e la mise fuori misura. Comincio subito ad agitarmi quando mi rendo conto che l’unico posto libero è a dieci centimetri dal suo posteriore: quello del Chihuahua, per capirci. Io indosso dei pantaloni neri un po’ a zampa, una camicia nera attillata, borsa e accessori a tema e una zeppa comoda di quelle che puoi farci anche la Parigi Dakkar. Sono a posto, nel senso di not aggressive. Ma ugualmente parte la guerra dei poveri. E comincio a vederla che si agita come un’ossessa, andando avanti e indietro con il cellulare, ostentando un disagio che dall’alto della sua giovane età le sembra una vittoria se non fosse già talmente alticcia da non reggersi su quelle esili stampelle da Airone Rosa: sì, perché è pure vestita di rosa! Allora mi accade una cosa strana, comincio a vergognarmi di e per lei, comincio a pensare a come deve sentirsi insicuro un Chihuahua di fronte a una donna come me, che misura i passi, che non è mai fuori tono, che anche quando sta fuori di testa mantiene sempre un atteggiamento minimalista, che ha delle amiche con cui ridere e prendersi in giro. Insomma così come deve sentirsi una di 35anni, insieme con uno di 53 che ha lasciato una di 52: una merda!

Quindi, dopo aver consumato un panino denominato Bavarese che non è composto principalmente da frutti di bosco e crema chantilly ma da un wurstel gigante che potresti benissimo riportartelo a casa per usi più appropriati, decidiamo di sgommare, per lasciare il Chihuahua razzolare libero di fare le sue pisciatine territoriali, e andare a vedere uno spettacolo di Tango Argentino. Finalmente. E poi tutto in discesa fino alla sera, alla mia sera, in casa sola, a fare i conti con il mio disagio.

E sono qui, ancora oggi, a chiedermi perché, nella misura astratta della condivisione della vita, quando l’età raggiunge dei livelli di spavento per le malattie che dovranno inevitabilmente sopraggiungere, per quella vecchiaia che non vogliamo accettare e che pure ci ricorda ogni mattina che la fatica è incontenibile, quando continuiamo a cercare che il passato ci cammini accanto per la paura di affrontare un presente con gente che non ci appartiene, perché non riusciamo a fermarci. Perché non riusciamo a stare soli, per cercare di capire di cosa abbiamo veramente bisogno, e potrebbe essere “di nulla” la risposta, o potrebbe essere altro, ma come, com’è possibile non capire la necessità di chiederselo. E spesso andiamo avanti, infelici e depressi, calpestando mentalmente le scelte fatte senza avere il coraggio di fare un passo indietro. Ci si lascia andare così, perdendo il senso degli affetti, cercando di mantenerli stabili, in equilibri precari, spesso di nascosto, come riserve da giocarsi nell’estremo. Che tristezza tutti questi equilibrismi, che tristezza non avere posizioni chiare e girovagare nel proprio cervello come rabdomanti alla ricerca del dettaglio che ci rassicuri sul futuro, che tristezza non avere le palle per stravolgere se stessi e decidere, una volta per tutte, di volere, desiderare, ottenere: cose, affetti, amori e anche paesaggi, tutto ciò che possa in qualche modo allietarci la vita.

Io sono una di quelle fiere di non essersi mai voltata indietro. Ma stasera mi chiedo il perché.

“È assurdo

dice la ragione

È quel che è

dice l’amore

È infelicità

dice il calcolo

Non è altro che dolore

dice la paura

È vano

dice il giudizio

È quel che è

dice l’amore

È ridicolo

dice l’orgoglio

È avventato

dice la prudenza

È impossibile

dice l’esperienza

È quel che è

dice l’amore.”

(Erich Fried- È quel che è)

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