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Posts Tagged ‘poesia’

veritable benedectine - fernanda veron

Io non so perdere ma ammetto la sconfitta. Isso una tremula bandiera bianca e mi ritiro in un angolo. Ma non so perdere. Riesco a covare rancore per anni senza trovare un minimo di pace, è questione di carattere, c’è poco da fare. Passo dai periodi di pace assoluta a quelli di cazzimma più totale. Abbasso le saracinesche e metto le ganasce ai ricordi, li imprigiono, e loro lì, felici di convivere in un perimetro di memoria così ristretto, evolvono, si trasformano, e diventano giganti pronti ad abbellire quanto di più brutto hanno depositato. I ricordi sono come le nuvole di polvere della pubblicità: li spingi fuori dalla porta e ti suonano il campanello travestiti da rappresentanti della Folletto, s’infilano in casa, nella tua bella asettica casa e si accomodano sul divano in attesa del caffè. In questo periodo il mio divano è molto frequentato. Saranno i cuscini nuovi o la mia rinomata accoglienza meridionale, ma non c’è verso di tirarli fuori, neppure se ti compri la scopa elettrica di ultima generazione, e così mi arrendo e accetto la sconfitta, mi siedo lì nella poltrona e mentre rigiro lo zucchero nel caffè, li guardo organizzarsi.  Si dividono in gruppi da quattro, all’inizio ho pensato che fossero suddivisi in periodi anagrafici decennali, dai venti ai cinquanta, poi ho capito che erano organizzati per potenza emotiva. C’era un tipo che manteneva le fila, disponeva i ricordi e li raggruppava nell’ordine stabilito, era basso e tarchiato e non ricordo affatto di averlo mai incrociato nel mio polveroso accumulo, eppure sembrava uno che sapeva il fatto suo, tanto che a un certo punto ha fatto alzare il ricordo del primo bacio, con fare brusco, per essersi intrufolato furtivo nel settore della separazione. L’ha lasciato lì, in piedi, per un sacco di tempo, abbastanza da mettermi in difficoltà perché non riuscivo a trovargli una collocazione precisa. Perché non lo ricordavo. Solo per questo.

Una volta ottenuto il beneplacito del direttore dei lavori, siamo stati tutto il tempo a guardarci con aria interrogativa, non sapendo bene come comportarci: a me sembrava un inutile e grottesco bagno di folla, a loro una sosta forzata nel regno dell’appartenenza. E regnava l’imbarazzo. Quell’imbarazzo mai sconfitto che si frappone tra esseri che si sono amati o perlomeno che hanno condiviso centimetri di pelle e di cuore in un periodo della loro vita: ne incontri uno al bar e non sai mai se lo puoi toccare, baciare, abbracciare e forse non te ne frega neanche niente di toccarlo, baciarlo e abbracciarlo ché la tua vita adesso è un’altra e non ti ricordi neppure in che settore devi collocarlo, eppure niente, ti acchiappa quella sorta di sospensione che ti ritrovi subito proiettata indietro e cominci a parlare in codice come se il tempo non fosse mai trascorso. Ecco, pensate a una situazione del genere moltiplicata all’infinito nel salotto di casa vostra. Decisamente tranchant.

Con i gruppi 1 e 2, di scarsa/media potenza emotiva, me la sono cavata abbastanza bene, in fondo erano solo recriminazioni di carattere accusatorio e decisamente infantili: appuntamenti mancati, tradimenti, storie e amicizie troncate senza un apparente motivo valido, piagnistei adolescenziali insomma, che a questa età fanno solo sorridere. Abbiamo chiacchierato amabilmente rettificando il tiro laddove in passato si era arrivati alla tragedia greca e alla fine ci siamo salutati con tenerezza: alcuni sono rimasti perché si sentivano di appartenere alle altre categorie, altri sono rientrati nei cassetti e altri ancora hanno preso l’uscio di casa per non farvi più ritorno.

Per il gruppo più azzeccoso, quello che non lo togli via neppure con la candeggina, la lotta è stata ìmpari e cruenta. I due gruppi coalizzati dalla convinzione di esseri i migliori, si sono scagliati con una ferocia inaudita contro quella che sembrava essere l’unica strategia possibile per evitare spargimenti di sangue: ridimensionarli; cercando di sorvolare sui singoli dettagli, per inglobare i ricordi in una prospettiva sistematica di scambio comunicativo a basso livello di personalizzazioni, provando in pratica a ridurre l’intensità ed evitare così ossessioni e paranoie persecutorie. Ma che ci pensi a fare! Non c’è niente di peggio che levigare i ricordi, ti convinci di averli tirati a lucido e poi, quando distrattamente ci passi una mano sopra, ne esci insanguinata. Loro stanno lì, radicati nel tuo corpo, che se li spingi via dal cervello, riemergono sul cuore, più affilati che prima, più taglienti che mai. Sono loro, quelli della fascia alta, che determinano i ricordi successivi, che riaccendono le lampadine della memoria e ti fanno fuggire via: “Ah no, non se ne parla nemmeno, questa sensazione la ricordo… so già come va a finire, devo scappare a gambe levate!”. E così a un certo punto ti accorgi che la tua vita si è trasformata in una fuga perpetua: scappi da tutto senza una ragione precisa, cominci a odiare gli imprevisti, diventi diffidente e ti accoccoli sul cuscino della memoria giustificando così ogni negazione. E ti distacchi dal piacere. E un battito di cuore diventa un’extrasistole da curare al più presto, diventi medico di te stesso convincendoti che sai bene come affrontare questa malattia che è la più tenace, la più infida, quella che ti arriva alle spalle e ti si piazza davanti con un mezzo sorriso di sfida. La mia malattia è l’accettazione dell’amore. Ha un nome, ma non una forma. Ha una tristezza e un’euforia, un alto e un basso, una fuga e un ritorno. E un ricordo. É uno scarabocchio sulla mia spavalderia, un buco nero che non emerge al sole, un coraggio che si fa timore. L’accettazione dell’amore è l’accettazione di se stessi: la capacità di accettare la sconfitta sapendo bene che le ferite non saranno mai mortali, che potrai sopravvivere e che farsi del male a volte fa bene, che la tua pelle è fragile e il tuo cuore spugnoso e che può piangere in eterno pur mantenendosi in vita. Ti ricorda che dovrai aggiungere un posto sul divano, perché l’amore spesso non ti vuole, però ti cerca sempre.

L’amore è solo per i sani

per i diversi

per quegli esseri risolti

che si esaltano

nelle pieghe dell’affetto.

L’amore non è per quelli

come noi

che stanno tutto il tempo

a stirare un tessuto ormai logoro

che serve a ingannare

a intrappolare.

Siamo impostori.

Siamo disperati.

Siamo la mano di vernice

a colorare la macchia lineare

deposta dentro il cuore:

quella piccola

insignificante cicatrice

che riemerge lucida

e gonfia

ogni volta che ti guardo.

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Oggi mordevo

un labbro

per l’attesa

era il mio di

labbro

quello inferiore

quello più indifeso.

Ho cominciato

lento il rosicchiare lento

e più l’attesa

si faceva attesa

e più penetravo la carne

con gli incisivi larghi e prepotenti.

A volte mi aiutavo

con un dito

cercando di spingere

l’offerta al sacrificio

altre giocavo

d’improvvisazione

di finta distrazione

per colpire netto e non lasciar la presa.

Era un gioco del corpo

per non sfoggiar tempesta.

Era un gioco di testa

per non mostrar la resa.

 

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MODIGLIANI 10005

Non ricordo il tuo sapore.

Ieri mentre mangiavo

un frutto di stagione

sono rimasta

con lo spicchio a mezz’aria.

Non ricordo il tuo sapore

ripetevo

come una cantilena al moribondo

a trattenere

il passaggio ad altro assunto.

Poi per una lenta

frustrazione che

ti sopravvive

ho leccato la mia mano

ho chiuso gli occhi

e mi sono ripresa

il mio dolore.

E mi fermo

con le mani sul tavolo piegate

le unghie a grattar la tovaglia

il frutto a metà

deformato sull’unghia

per accanimento

per sfida contro natura

ti infilzo dolcemente

per un ultimo accordo

di aspro colore.

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Donna-alla-finestra-a19065875

Dove si ferma l’amore

in quale angolo di terra sperduto

si sofferma a pregare,

oltre a quale soglia

che divide l’attesa dalla sua rivelazione.

Dove si ferma l’amore

contro quale semaforo rotto,

a quale bivio di fortuna

si è concesso il lusso di inciampare.

Ho lastricato di tesori

strade impervie

lasciato scritte sui muri

appese lanterne lungo strade buie.

Dove si è fermato

il mio amore?

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sedia e candela

Solo e ricurvo

sotterro la

mia guerra

per l’improvviso

sfinimento

di osservarla

ridursi

fino a divenire

fragile

e scomposta

come un

tardivo

rancore.

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andrea pazienza

 

Cerco la rima.

Son pieno d’amore

per gli altri,

son pieno

d’amore

e il mio

amore

è un fluido

magnetico

passato

al setaccio.

Il mio

amore per gli

altri è vero.

E nel mio

amore vero

c’è tutto

c’è l’odio.

Un pizzico d’odio

non guasta

l’amore perfetto.

E il mio amore

perfetto è un mare

con un po’

d’odio dentro, granelli

di sabbia.

E il mio amore

è un fluido

magnetico passato

al setaccio.

(A.Pazienza – inizio anni ’70)

Mi chiamo Andrea Michele Vincenzo Ciro Pazienza, ho ventiquattr’anni, sono altro un metro e ottantasei centimetri e peso settantacinque chili. Sono nato a San Benedetto del Tronto, mio padre è pugliese, ho un fratello e una sorella di ventidue e quindici anni.

Disegno da quando avevo diciotto mesi, so disegnare qualsiasi cosa in qualunque modo. Da undici anni vivo solo. Ho fatto il liceo artistico, una decina di personali, e nel ’74 sono divenuto socio di una galleria d’arte a Pescara: “Convergenze”, centro d’incontro e di informazione, laboratorio comune d’arte. Sempre nel ’74 sono sul Bolaffi. Dal ’75 vivo a Bologna. Sono stato tesserato dal ’71 al ’73 ai marxisti-leninisti. Sono miope, ho un leggero strabismo, qualche molare cariato e mai curato. Fumo pochissimo. Mi rado ogni tre giorni, mi lavo spessissimo i capelli e d’inverno porto sempre i guanti.

Ho la patente da sei anni ma non ho la macchina. Quando mi serve, uso quella di mia madre, una Renault 5 verde. Dal ’76 pubblico su alcune riviste. Disegno poco e controvoglia. Sono comproprietario del mensile “Frigidaire”. Mio padre, anche lui svogliatissimo, è il più notevole acquarellista ch’io conosca. Io sono il più bravo disegnatore vivente. Amo gli animali , ma non sopporto di accudirli.

Morirò il sei gennaio 1984.

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A volte corro troppo

e correndo  inciampo

persa nella mia visione

mi distraggo all’orizzonte

mi confondo

sul futuro

e dimentico il presente.

Non scorgo il sassolino

se per la dimensione

sottovaluto

l’effetto.

Ma un sasso è un sasso

e io sono imprudente.

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Eppure ci vivo

in questo circo

e osservo distante

il vicino che torna affannato

per la cena che lo aspetta

la ragazzina scalpitante

che rientra a notte fonda

con le scarpe in mano

la donna in carriera

che rincasa infreddolita

da una giornata

senza amore.

Eppure ci vivo

in questo circo

e ogni volta mi stupisco

di essere anch’io

l’animale in gabbia.

Mi sorprendo a pensare

che qualcuno mi osservi

con raccapriccio

cercando nella mia postura

una collocazione

inaspettata.

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uomo-donna-

Non so cosa sia l’amore

ma forse

è qualcosa come:

Se lei

ritorna a casa da un paese straniero

e mi dice con orgoglio: “Ho visto

un topo d’acqua”

e io mi ricordo di queste parole

quando la notte mi sveglio

e il giorno dopo al lavoro

e ho nostalgia

di ascoltarla

ripetere queste parole

e poi

che pronunciandole

mi appaia esattamente come quando

le pronunciò –

E’ forse questo, penso, l’amore

o qualcosa di non molto diverso.

(Erich Fried)

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Lucia Bianchi

 

Sempre voler capire. Non si può.

Bisogna cedere, bisogna ritirarsi,

bisogna fare come fanno i gatti

quando si acquattano, i muscoli in un fremito

contratti, prima di scagliarsi verso

una qualche preda, che sia per gioco

o che sia roba seria; o quando in un ferocissimo

kabuki affrontano il rivale, e l’universo

intero allora si concentra in un assorto

e millimetrico avanzare, e poi

senza preavviso, forse perché si sta mettendo

male – la scusa  è sempre una mosca o un moscerino

che si ritrova dalle loro parti –

guardano in giro, si fingono distratti,

loro che c’entrano? mica era sul serio!

Ma chissà, forse si distraggono davvero.

(P. Cavalli)

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