A volte sale, ma non sempre. Spesso si accontenta di farmi scendere il cane, di depositarlo come una valigia nel vano dell’ascensore, di spingere il tasto “terra” e di farselo recapitare come un bagaglio disperso in aeroporto. Assecondo queste decisioni, è faticoso averlo per casa, nella nostra casa, o per meglio dire in quella che è stata la nostra casa, si aggira spaurito, come un ospite che è stato a cena troppe volte per aspettarsi una sorpresa dalla cuoca. Non ho più sorprese da offrire. Dopo dieci anni non ho neppure parole da dire, dopo dieci anni è stato detto tutto e forse anche troppo. A pensarci bene avremmo potuto tacere molto, se ci fossimo affidati all’antica consapevolezza dell’amore fraterno, che dura in eterno, perché frutto del tacito accordo tra due esseri complementari, ma privi di colpi di scena. La passione è un colpo di scena. E’ un coup de théatre, quello che ti capita quando non vorresti mai distrarti da te stesso. E’ inevitabile, come una malattia, e noi ci pensavamo troppo avanti per replicare quanto già vissuto.
– Mi scendi il cane?
– Certo. Come stai?
– Bene, e tu? Hai iniziato il corso di pittura? Sei contenta?
– Sì, mi piace molto. Sai che è un mio antico desiderio.
– Sono contento … vabbè ci sentiamo, poi mi dici. Mi raccomando.
Ecco, cosa siamo. Voglia di raccontarci. Con la paura di farlo. Paura di tornare indietro, di replicare quanto con fatica è stato abilmente e irrimediabilmente distrutto. Allora si finge. Io che non vedo più la sua bellezza, il suo corpo statuario, il suo viso perfetto. Lui che non vede più le mie trasformazioni, le mie evoluzioni, le mie battaglie perse e le mie inevitabili cadute.
A volte invece sale. Entra in casa e ci aggiriamo per le stanze con il timore di replicare un’intimità che ci potrebbe scaraventare immediatamente nella vita passata da poco, eppure già così distante. Evitiamo così di guardarci negli occhi, perché quando capita, di sfuggita, casualmente, mentre osservi il gelsomino che è cresciuto nonostante la sua assenza, sfugge un sorriso degli occhi, una confidenza antica, fatta di vita vissuta, di colazioni silenziose e progetti mai realizzati.
I sogni che ti accompagnano ad un altro te stesso, sono di quanto più deleterio tu possa conservare. Sono illusioni. Sono solo memorie.
Lo guardo e rammento di quando l’ho chiamato disperata perché avevo paura di noi, mentre lui era in montagna ad arrampicare, lontano, e di com’è tornato indietro. E rammento tutto di quella giornata, quando spinti dalla fame, siamo andati in un posto sfigatissimo a mangiare pesce fritto e bere birra, e di come aspiravo il suo odore seduta dietro la moto e di come mi sentivo piena di quell’essenza. Ecco, questo è il mio flash di lui. E’ questo che mi resterà sempre nella memoria. E’ questo il momento di beatitudine. E’ questo il momento dell’amore di lui, che condensa dieci anni di convivenza. Bastava fermarsi lì. A saperlo.
Ora lo guardo e mi sforzo di provare qualcosa, ma non sento niente e questo mi rattrista. Vorrei poter soffrire, ma lo guardo nelle sue scarpe modaiole, acquistate con la sua nuova donna bambina e mi fa tenerezza. Non c’è traccia di lui, è un’altra persona che finge con me, di essere diverso. Non riesce a stare solo, ha sempre bisogno di qualcuna che gli indichi una strada e non ha la capacità di valutarne le potenzialità. E’ un uomo destinato alla solitudine.
Forse anch’io sono destinata alla solitudine e questo faceva di noi due, esseri complementari, ma della mia solitudine mi sento di affermarne la differenza: non ho bisogno di essere accompagnata, ho soltanto bisogno di me stessa ed è soltanto questo che rende le donne più forti e più consapevoli.
Ed è soltanto questo che lo spaventa, la mia rinuncia a cercare una pedina qualsiasi da soprapporre al gioco dell’abbandono.
Ed è solo questo che lo spaventa: la consapevolezza, di essere stato nella mia vita, solo una fragranza portata dal vento.